A sei mesi dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca e a tre anni e mezzo dalle prossime presidenziali, il Partito Democratico americano sta già oliando gli ingranaggi per sondare i prossimi candidati alla presidenza Usa. Non è facile mettere assieme grandi finanziatori, piccoli sostenitori, consulenti e volontari, ma la macchina organizzativa dell’asinello è già in moto per accreditarsi presso i grandi gruppi di interesse ed evitare un nuovo cataclisma Hillary.

Innanzitutto bisogna capire che tipo di candidato vuole la base: se della sinistra pura che fa riferimento a Bernie Sanders e Elizabeth Warren passando per l’ex VP Joe Biden, oppure i candidati con un consenso bipartisan, quelli con esperienza, i più aggressivi, gli scandalisti, gli esperti in politica estera, gli ambientalisti, oppure, in ultima analisi, come insegna la vittoria di Trump, di chi non ha nessuna esperienza attiva in politica. Tutti queste realtà sono già presenti all’interno dei Democratici: basta capirlo per tempo.

La sinistra pura.
In questo target l’attore principale è quel Bernie Sanders che tanto filo da torcere ha dato a  alle primarie democratiche dell’anno scorso, ma che oggi ha come punto di riferimento nella senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. Adorata dai progressisti, odiata dai repubblicani, la Warren ha fondato il Consumer Financial Protection Bureau, un organismo indipendente, ma governativo, che protegge i consumatori nel settore finanziario. Un altro campione potrebbe essere Joe Biden, ex vice presidente di Obama. Biden conosce bene gli elettori della Rust Belt, la regione dei Grandi Laghi e del Midwest statunitense; ne conosce la forza (perno dell’industria americana che fu) e il declino dopo la crisi. È qui che Trump ha catalizzato il malcontento che lo ha portato alla Casa Bianca, ed è qui che i Democratici devono recuperare il terreno perduto.

Gli Heartlander.
Gli heartlander sono i candidati col consenso bipartisan, quelli che provengono dal cuore della nazione, sia geografico che sociale. I candidati in questione sarebbero il governatore del Montana Steve Bullock e il senatore dell’Ohio Sherrod Brown. Il primo sta costruendo un consenso bipartisan, il secondo dovrà innanzitutto farsi rieleggere in uno Stato in cui Trump ha vinto con oltre 8 punti di vantaggio. Non sarà facile, ma non è impossibile. La senatrice del Minnesota Amy Klobuchar si sta giocando invece la carta della classe operaia del Midwest e in una recente intervista ha riassunto il senso dell’essere autenticamente al centro: “Siamo le persone al centro della nazione; classe media, stipendio medio, persino età media. E sì, talvolta, al centro politicamente“.

L’esperienza.
È qui il più vasto gruppo a cui i democratici possono far ricorso. Soprattutto visti i tre governatori col più largo consenso: Andrew Cuomo, John Hickenlooper, Jerry Brown. Andrew Cuomo è il governatore dello stato di New York e figura molto nota nel partito. È chiamato “governatore 1%” per il suo piano fiscale che ha permesso di abbattere gli oneri tributari di New York dell’un per cento, ma ultimamente ha legato il suo nome a misure più popolari, come l’innalzamento del salario minimo e alcune misure che permettano ai meno abbienti di frequentare il college gratuitamente. John Hickenlooper è il governatore del Colorado, nel suo sacco ha alcune scelte molto dubbie, tipo il fracking nella Trans-Pacific Partnership, ossia la tecnica estrattiva di petrolio e gas che divide profondamente l’opinione pubblica. Dalla sua ha sicuramente il fatto che il Colorado è l’economia più forte degli Stati Uniti. Il Colorado, tra l’altro, ha anche la legge sul controllo delle armi più severa della nazione emanata dopo la strage di Aurora del 2012, dove un giovane uccise dodici persone in un cinema. Infine Jerry Brown, il governatore della California più amato degli ultimi decenni grazie ad un piano di sviluppo che ha portato il Golden State tra gli stati più in crescita della nazione. Di contro ha solo l’età: nel 2020 avrà 82 anni, parecchi di più dei “saggi” Sanders e Biden.

Gli aggressivi.
Dopo la batosta elettorale, i democratici stanno affilando le unghie per rendersi più irruenti almeno nei momenti che contano. I candidati “aggressivi” non sono tantissimi, due in particolare sono da tenere d’occhio. Il primo della lista è il deputato del Massachusetts Seth Moulton: belloccio e molto telegenico, deve sicuramente parte del suo successo a un memorabile tweet in risposta a Trump che si lamentava del clima da caccia alle streghe: “In qualità di rappresentante del distretto di Salem in Massachusetts, posso affermare che è falso”. Salem, per quei pochissimi che non lo sanno, è nota per lo spietato processo alle streghe del 1692 (raccontato in decine di film).

Altro attaccabrighe papabile è il clintoniano governatore della Virginia Terry McAuliffe. Irriducibile e straordinaria macchina da guerra quando si tratta di raccogliere fondi, si narra che dopo aver prelevato la moglie dall’ospedale in cui aveva appena partorito, si fermò sulla via di casa ad un evento che raccoglieva fondi per il partito. Ovviamente mamma e figlioletto non ne furono entusiasti, però lo “accompagnarono” con molta discrezione.

Gli scandalisti.
La vittoria di Trump si è portata dietro anche un’altra categoria di politici particolari: gli scandalisti, ossia quei politici che, con fare vigile a volte poco ortodosso, mette sulle spine l’operato dell’avversario denunciandone le eventuali irregolarità. Il più quotato è il senatore Mark Warner, vicepresidente della commissione intelligence del Senato che segue le indagini sul Russiagate. Altro da tenere d’occhio è il senatore del Minnesota Al Franken, capace di inchiodare il procuratore generale Jeff Sessions accusandolo di spergiuro e costringendolo a farsi da parte sulle indagini che riguardavano i rapporti tra lo staff di Trump e il Cremlino durante le elezioni presidenziali scorse. È stato il comportamento del senatore del Minnesota a costringere il numero due del Dipartimento di Giustizia, Rod Rosenstein, a nominare Robert Mueller come procuratore speciale nelle indagini sul Russiagate. Insomma, un bel tipino.

Gli esperti in politica estera.
Con i continui atti terroristici nel mondo – l’ultimo dei quali al Parlamento di Teheran e al mausoleo che contiene le spoglie del padre della Repubblica Islamica dell’Iran, l’ayatollah Khomeini -, il fronte internazionale è una delle tante battaglie che il prossimo “Commander in chief” dovrà combattere al meglio. Joe Biden è tra i maggiori esperti in politica estera; ma se i democratici volessero trovare qualche faccia più spendibile, le alternative sono almeno due, di entrambi i sessi. Il più quotato al momento è il senatore Chris Murphy, membro della Commissione Affari Esteri del Senato, che in questi mesi ha dimostrato ampiamente la sua padronanza nelle vicende politiche internazionali. Altro volto spendibile è la deputata hawaiana Tulsi Gabbard, primo membro indù del Congresso e prima donna veterana di guerra ad essere eletta alla Camera dei Deputati. Anche la Gabbard vanta un curriculum in politica estera di tutto rispetto, ma la sua eventuale candidatura può essere preclusa per alcune note stonate nel suo recente passato: l’incontro col presidente siriano Bashar al Assad senza informare il plenum democratico, essere stata in passato contraria ai matrimoni omosessuali e, soprattutto, per essersi unita ai repubblicani accusando Obama di non definire terrorismo l’Islam radicale.

Gli ambientalisti.
Dopo l’addio della Casa Bianca all’accordo di Parigi sul clima, una delle carte che possono giocarsi i democratici per il 2020 è la presidenza ambientalista e dell’impegno civile. Su questo punto il campione indiscusso è Bernie Sanders, ma anche la governatrice dello stato di Washington, Jay Inslee, non è da meno dato che governa lo stato più “verde” d’America e ultimamente ha proposto una tassa sul carbone che ha pochi eguali. Altra battaglia fondamentale è quella sui diritti delle donne. Nel 2016 il 58% degli elettori alle primarie erano donne, il cui tema “combattente per la libertà riproduttiva” ha posto delle solide basi per la battaglia per la parità di genere e per il diritto all’aborto. Qui la campionessa indiscussa è la senatrice di New York Kirsten Gillibrand, seguita a ruota dalla senatrice californiana Kamala Harris, odiata dai pro-life per aver autorizzato, da ministro della giustizia dello Stato della California, una perquisizione negli uffici dell’esponente antiabortista David Daleiden. Più all’interno nell’ambito diritti, un tema molto sentito soprattutto perché il 35% degli elettori democratici appartiene ad una minoranza, con un 25% di afroamericani, è, ovviamente, quello sui diritti civili. Il senatore del New Jersey Cory Booker, è il candidato ideale anche se nel suo passato si nota qualche finanziamento di troppo dal mondo finanziario e di Wall Street. Ma se ce l’ha fatta Hillary, perché non potrebbe provarci pure Booker?

Gli inesperti.
I candidati con poca esperienza politica, vengono definiti “Wilson” dai media in onore di Thomas Woodrow Wilson che nel 1912 venne eletto presidente avendo avuto un’unica esperienza triennale da governatore del New Jersey. Oggi più che mai, l’inesperienza politica è uno dei fattori che potrebbero determinare l’ascesa o l’oblio per il prossimo candidato presidenziale, questo grazie alla retorica anti-establishment, accentuata o velata dalle diverse circostanze, che ha fatto la fortuna di Trump. Tuttavia, il volto nuovo per il Partito Democratico dovrebbe essere nuovo ma non digiuno di politica, come ad esempio uno dei tanti governatori che verranno eletti nel 2018. Tra i nomi che si profilano in questo segmento troviamo il vice governatore della California Gavin Newsom, che da sindaco di San Francisco autorizzò i matrimoni gay nella sua città nonostante fossero proibiti dallo Stato; il candidato governatore della Virginia Tom Perriello, e soprattutto la brillante Stacey Abrams, capogruppo di minoranza alla Camera dei Rappresentanti dello Stato della Georgia e candidata governatrice nello stato delle pesche.