Dopo i fallimenti del privato, tra le macerie del ponte Morandi si aggira il fantasma della nazionalizzazione. Sul ruolo del pubblico è assolutamente legittima una riflessione, a patto che sia tutto chiaro nella mente dei nostri governanti, cosa che al momento non lo è affatto. Cosa vuol fare il governo con le concessioni di Autostrade nessuno lo sa: Toninelli è certissimo: “Nazionalizzazione immediata”; il sottosegretario Giorgetti è incertissimo: “Ragioniamo, ma lo Stato non deve fare i panettoni”; Conte è vaghissimo: “Avanti con la revoca, valuteremo la modalità migliore per soddisfare l’interesse pubblico”.

Ed ecco spuntare allora il solito asso nella manica di tutti i governi: Cassa Depositi e Prestiti, un portafogli da 420 miliardi di risparmi postali pronto ad essere svuotato per far contento il ministro di turno. Nella mente dei nostri governanti, CdP dovrebbe rilevare la quota di maggioranza di Atlantia, la holding cui fa capo Benetton. Ma, al di là delle ipotesi serie o ferragostane, ci sono due cose che appaiono evidenti: la concessione a Autostrade non è facile da togliere perché è un groviglio giuridico e costituzionale di proporzioni ciclopiche, quindi le intemperanze pentastellate sbatterebbero il muso – stando al loro modus operandi – in qualcosa di simile ad una montagna di granito alta quanto il K2; la seconda invece riguarda tutte le concessioni, compresa la telefonia mobile e le tv. Ridefinire tutte le concessioni è una sfida talmente ambiziosa, enorme e aggrovigliata, che per essere all’altezza di tale oneroso compito avremmo bisogno di (tanti) Statisti con la S maiuscola.

Insomma, questo governo non pare all’altezza del compito che si è prefissato anche – o solo – per il semplice motivo che non pensa al mondo che ruota attorno a noi quando fanno le loro dichiarazioni di pancia. Le dichiarazione a freddo, come dicevano durante la Prima Repubblica, alimentano l’ego ma snaturano la Politica, che è fatta di studio, ricerche e corrispondenze con lo stato sociale per (ri)costruire una coesione sociale per i cittadini. Questo governo non pare all’altezza del compito, ma non lo sono stati nemmeno i governi che lo hanno preceduto che hanno aperto le porte del settore pubblico al privato senza vigilare sull’efficienza del compratore, sugli investimenti promessi e mai attuati, sui pedaggi non regolamentati se non quando si chiedeva un rialzo del biglietto per ripagare opere strategiche che andavano controllate prima e dopo la realizzazione (il ‘durante’ mi pare abbastanza scontato). Invece lo stato (s minuscola) dei governanti ha preferito chiudere tutti e due gli occhi pur di andare avanti con le liberalizzazioni tout court. Eccolo il peccato originale.

Oggi, rivedere lo “Stato-Padrone” è di per sé un atto rivoluzionario, ma sbagliato. È sbagliato perché nessuno di loro si ricorda le trame da Prima Repubblica quando i tesoretti pubblici erano equamente divisi tra i partiti; si rileggano le lettere tra Prodi, presidente dell’Iri, e Cuccia, padre-padrone di Mediobanca, nei mesi antecedenti alla privatizzazione delle banche. Se allora fu colpa di una politica senza morale e di un capitalismo senza capitale, oggi sarebbe colpa di una politica che non riesce a guardare al di là del proprio naso, che non sente ragioni se non la propria e che guarda al populismo come unica arma contro i ‘poteri forti‘. Però scrivono da dio sui social.

Chiudo con una riflessione personale: se il Pd continua a seguire le gesta di questa maggioranza, preoccupandosi solo dei crolli in borsa o poco più, allora si merita tutti i fischi di Genova senza se e senza ma. Cambiare il nome e tornare per strada sono discorsi vacui e già sentiti per la loro totale inutilità; il governo del cambiamento non esiste, ma un’opposizione del cambiamento potrebbe benissimo trasformarsi in Fenice: spolverate la cenere per vedere la prateria. Quella vera