Nel Principe, Nicolò Machiavelli scrive che il successo di un monarca dipende dalla fortuna e dalla virtù, metà dell’uno e metà dell’altro. In pratica, al comando non c’è mai solo casualità, o solo follia, o solo capacità.

Oggi questo accade nel Partito Democratico: l’epilogo di una storia cominciata con una classe dirigente inadeguata – iniziata con la figuraccia di Bersani alle politiche del 2013 – e terminata con una classe dirigente altrettanto inadeguata simboleggiata da un Renzi irriconoscibile. Il Pd ha perso peso e credibilità: ma nell’anima, non nella struttura. Comunque vada, ciò che uscirà dal congresso non sarà più il Partito Democratico come lo conoscevamo.

Sulla crisi del Pd si è detto di tutto e tutti ci siamo fatti un’idea più o meno realistica di come andrà a finire tra qualche mese. Eppure, dopo aver ascoltato tutte le parti in causa come un bravo giudice, nessuno ha il coraggio di essere ottimista sul futuro del Partito Democratico. Perché, in fondo, ci vergogniamo di come “sta al mondo” questo partito: dieci anni di lacerazioni continue, che cerchi di insabbiare nei meandri ancestrali della mente, ti fanno dimenticare dei dieci anni di sconfitte brucianti e di vittorie da incorniciare. Ma la legge di Murphy è sempre in agguato, e ogni volta, brutalmente, ti ricorda che esiste. L’epilogo probabilmente avverrà entro i prossimi sei mesi e lo chiameremo con nome e cognome: Congresso Programmatico.

Il Partito Democratico si è sciolto; praticamente scomparso o diluito in mezzo a beghe di correnti che stanno al di fuori della realtà quotidiana. All’italiano medio poca importa delle fratture al suo interno perché fare il congresso in aprile o a settembre non porterà crescita e lavoro. Porterà altre tensioni, altre fratture – sia umane che politiche – e tra due anni parleremo un’altra volta di scissione, di rottamati che non vogliono farsi rottamare e di una classe dirigente ancora una volta inadeguata al compito che i cittadini gli hanno concesso. Dieci anni inutili.

Quando nel 2007, al Lingotto, il sogno di un “partito fluido” in grado di unire e sintetizzare tutte le anime del centrosinistra, che fosse pure a vocazione maggioritaria, prese corpo e anima, in tanti, compreso il sottoscritto, pensarono che fosse l’unico modo per arginare quella deriva scissionista presente nel DNA della sinistra italiana. Ci sbagliavamo: la sinistra è determinata a scindersi a qualsiasi costo.

Nulla è cambiato dai tempi de L’Unione: ogni progetto, ogni corrente, ogni frammento ideale vuole il suo spazio vitale. Lo pretende, lo chiede con forza, si prepara alla guerra pur di ottenerlo. Cambia la scatola ma il contenuto rimane ancora una volta vuoto: doveva riempirsi di progressismo laico, di elettori entusiasti, di militanti animati; oggi rimane solo un simbolo con due lettere colorate. Il Partito Democratico del 2017 è mozioni, tessere, regole, documenti sempre uguali e ancora mozioni. Nulla è cambiato.

Però i tempi son cambiati: negli Stati Uniti c’è Trump che vuole arginare l’Islam e vuole costruire un muro al confine col Messico; in Francia Le Pen vuole espellere tutti gli stranieri; in Europa lo spettro xenofobo e nazionalista è proprio dietro l’angolo. Il Pd invece pensa solo alla scissione, al congresso subito-subito, alle elezioni anticipate, a Renzi-sì e Renzi-no. Siamo un partito bipolare che porterà il grillismo a quello che era il berlusconismo poco più di cinque anni fa. Siamo campioni mondiali nel soccorrere gli avversari in decadenza.

La verità è che la sinistra vive per demolire se stessa, non capisce – o meglio: non intende capire – la differenza politica tra ideologia e compromesso, tra realtà e finzione. Però siamo bravi con le parole: “Dobbiamo ritrovare la fiducia dei nostri elettori, dobbiamo parlare a quella gente che ci ha voltato le spalle, dobbiamo tornare ad ascoltare i nostri”. Mina in versione moderna.