Il caos originato dal cambio di regime nel 2011 in Libia è uno dei punti più delicati della campagna presidenziale statunitense. L’attacco all’ambasciata americana a Bengasi l’11 settembre del 2012, in cui morirono quattro persone tra cui l’ambasciatore Chris Stevens, è un’ombra su Hillary Clinton: i parenti delle vittime le hanno fatto causa, mentre Donald Trump ieri ha detto che l’Isis è stata creata da Obama e Clinton.

Oggi, a Detroit, Hillary cercherà di spiegare la sua proposta economica con la speranza di riacciuffare The Donald sui temi fiscali, temi in cui ha grosse difficoltà con gli elettori (i sondaggi sono più favorevoli al candidato repubblicano). L’alleanza con Bernie Sanders probabilmente influenzerà il suo piano, d’altra parte i sostenitori dell’ex candidato socialista si aspettano leggi più dure sugli speculatori di Wall Street e una redistribuzione del reddito a vantaggio delle classi più povere. Forse un po’ troppo, visto che Clinton gode del forte sostegno degli hedge & equity fund: secondo i calcoli del Wall Street Journal, 47 milioni di dollari in donazioni provengono da società che lavorano nei fondi speculativi.

Ma torniamo alla Libia. Cosa resta da fare dopo aver preso Sirte? Non rimane che conquistare la Libia. La realtà è questa: espugnare Sirte e cacciare i miliziani dello stato islamico è un fatto positivo, ma il problema della Libia è tutta un’altra storia e la stabilità del paese, al momento, è una soluzione molto lontana.

Guardate la foto nel lancio del Libya Herald: sono cadaveri lasciati sotto al sole all’esterno del Benghazi Medical Centre perché non c’è più posto nelle camere mortuarie e la Mezzaluna Rossa è stata autorizzata a seppellire i corpi, non ancora identificati, per fronteggiare l’emergenza. La Libia è una polveriera. La primavera rivoluzionaria del 2011 fu alimentata con la spedizione di armi alle tribù, confermata da un’indagine delle Nazioni Unite in cui si dice che l’embargo sulla fornitura di armi è stato violato in maniera sistematica: artiglieria leggera e pesante, lanciarazzi, lanciamissili, carri armati e aerei da caccia sono stati forniti, in passato e di recente, alle fazioni in lotta per il controllo del territorio. A questo arsenale si è aggiunto quello distribuito dalla Francia, dal Qatar, dagli Emirati Arabi, dalla Russia e dagli Stati Uniti durante la rivolta contro Gheddafi. Queste armi non sono mai state riconsegnate: sono in mano ai clan libici che, a loro volta, ne hanno girato una parte ai combattenti in Siria, in Mali, in Niger e in Nigeria. Queste milizie sono fuori dal controllo del presidente Fayez al-Sarraj, e quando decidono di combattere al suo fianco lo fanno solo per soldi, non per nazionalismo, ché tanto in Libia ormai non esiste più da mo’.

Il caos sul controllo delle armi – e delle forze armate – non conosce ostacoli e l’Est del paese non è governato da Tripoli: il generale Khalifa Belqasim Haftar – a proposito: leggete la sua storia, è interessantissima – qualche giorno fa ha rivendicato il comando della 204esima brigata corazzata, ha nominato un nuovo capo e cambiato il nome della formazione. Ma non è tutto: gli attacchi dei giorni scorsi alle strutture petrolifere di Zueitina sono da leggere come la risposta ad Haftar di Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti, ed è un chiaro avvertimento al generale. In Libia comandiamo noi.

Vi starete chiedendo cosa c’entra la Libia con le elezioni presidenziali americane. C’entra eccome! Quella del candidato repubblicano non è solo propaganda, perché se Trump gioca in maniera spregiudicata con le parole, poi ci sono i fatti, che sono solidi. Basta leggere qualche libro di recente uscita o la cronaca giornalistica sull’attentato di Bengasi per avere un quadro un po’ più chiaro degli errori commessi dal Dipartimento di Stato guidato da Hillary Clinton e, di conseguenza, dall’amministrazione Obama. In Libia e in Siria la guerra per conto terzi predisposta dagli Stati Uniti si è risolta con la fornitura di armi a fazioni poi confluite nell’Isis: documenti declassificati della Defense Intelligence Agency dicono che nel 2012 l’amministrazione americana fu avvisata sugli eventi in corso, sulla “presenza di un gruppo salafita nell’Est della Siria” e sulle intenzioni “dell’Isis di creare lo stato islamico”, senza mai ottenere un riscontro reale dal Dipartimento di Stato. La campagna elettorale di Trump è ambigua, rozza, spesso border line, ma gli errori in politica estera della Casa Bianca sono reali. E ne stiamo pagando le conseguenze tutti quanti.

Esattamente 32 anni fa, l’11 agosto del 1984, il defunto Ronald Reagan tenne un discorso alla radio le cui parole più importanti furono queste: “Cominceremo a bombardare la Russia tra cinque minuti”. Era uno scherzo, naturalmente, ma le reazioni furono più o meno come quelle che sentiamo quando parla Trump. Però nessuno ha mai paragonato The Donald a Ronnie, mi pare. Speriamo regga almeno questo tabù.