La politica di questi tempi possiamo definirla come l’abominevole uomo dei social: si esaspera il proprio profilo, la propria immagine pubblica, la propria esperienza istituzionale; si dopano i programmi e la propaganda; si radicalizzano le differenze e ci si scontra nei confronti senza cercare la via del dibattito civile.

In campagna elettorale tutto questo ormai è normale, quasi fisiologico potremmo dire. Ma stavolta il campo dell’esame ha assunto tratti quasi irreali per la ricerca assoluta del colpo ad effetto che metta definitivamente ko l’avversario. Il dilemma principale è che se fino a qualche anno fa ciò che avveniva online era chiuso nella bolla di internet, oggi tutto questo si riversa fuori, sempre più all’esterno finché non diventa tutt’uno con la realtà: l’online e l’offline sono diventati esattamente la stessa cosa. È vero, sono anni che diciamo che la nostra vita online è identica alla nostra vita reale, ma qui si trascende il senso: se non siamo bestie, come può coesistere una vita online così differente da quella reale?

Ieri sono state sciolte le Camere e si è dato ufficialmente il via alla campagna elettorale che ci porterà alle elezioni del 4 marzo 2018.

Ciò che immediatamente si nota è come la stragrande maggioranza dei partiti e dei politici sia già ben oltre il limite della credibilità: il sempreverde Berlusconi ha promesso il reddito di dignità, le pensioni minime a mille euro e l’abolizione del bollo auto; il giovine Di Maio promette un taglio alle pensioni d’oro per far spazio al reddito di cittadinanza e il referendum per l’uscita dall’euro; il non più nordico Salvini ha annunciato il blocco di tutti i migranti con la conseguente restituzione del lavoro agli italiani, l’aumento del salario minimo, la roboante Brexit italica. Tra tutte queste promesse, l’annuncio di Renzi di estendere a più italiani gli 80 euro sembra quasi una barzelletta. Purtroppo non fa ridere, è l’arte della demagogia applicata, il populismo dagli effetti distorsivi e irrefrenabili.

Sono tutte promesse senza alcuna base di attendibilità. Tutte, nessuna esclusa. E purtroppo siamo solo all’inizio.

L’aumento indiscriminato delle pensioni porterebbe ad una spesa previdenziale che andrebbe ben oltre l’attuale 17 per cento del Pil, un’enormità; il reddito di cittadinanza costerebbe almeno dodici miliardi l’anno e non basterebbe nemmeno eliminare del tutto le pensioni di oltre tremila euro per far fronte alla spesa; l’uscita dall’UE significherebbe un crollo della nostra moneta (la Lira) peggio che negli anni Ottanta e Novanta con i tassi d’interesse alle stelle; altri 80 euro al mese ci porterebbero a due manovre milionarie l’anno. E nessuno che chiarisca come attuare le promesse senza aumentare il nostro già gravoso debito pubblico. Ma il rischio maggiore, quello che ci farebbe molto più male, è la perdita di credibilità (e di affidabilità) di fronte al mondo proprio adesso che pian pianino stiamo iniziando a rialzarci e a vedere uno spicchio di luce in fondo al tunnel.

Il marasma delle promesse un tanto al chilo è agevolato da una legge elettorale che incentiva il dramma, chiude il recinto di ogni partito costringendoli a difendere il proprio perimetro.

Succede come nella Prima Repubblica, con la sottile ma imprescindibile differenza che allora il sistema politico era ben definito, mentre oggi è irreale, etereo, al limite del grottesco. Nella Prima Repubblica erano banditi l’estrema demagogia e il populismo radicale. Non c’erano soprattutto gli stringenti vincoli di bilancio attuali e il debito pubblico non era ancora a livelli critici (nel 1970  la spesa previdenziale era “solo” il 7,8 per cento del Pil). Non si facevano promesse elettorali fantasiose e il governo portava a compimento buona parte di quelle promesse. Oggi conta solo l’urlo: si fanno promesse alzando la voce più in alto dell’avversario, che oggi è diventato un nemico da abbattere a tutti i costi. La semplificazione propagandistica è l’anima della politica, che però dimentica la reale condizione del Paese.

La ripresa è partita e qualcuno di noi riesce pure a vederla.

Ma dimenticarsi che l’Italia è appesantita dal fardello di uno dei più alti debiti pubblici al mondo è il peggior difetto della politica. Dimenticarsi che il rapporto debito/Pil è al 130 per cento e che in dieci anni è aumentato di 30 punti, ci espone ai giochini degli investitori e alle porte chiuse in faccia dell’Unione Europea. Mentre Francia e Germania sono già a lavoro per una nuova Europa, noi italiani stiamo facendo di tutto per diventare la comparsa nei futuri assetti europei.

Ed è in questo contesto che voglio dare un consiglio al centrosinistra, mia area di riferimento: non lanciatevi in questa folle corsa a chi la spara più grossa; abbiate il senso di responsabilità per riformare questo paese con del sano pragmatismo, senza cadere nel tranello della demagogia e del populismo perché l’ambizione di guidare il paese è cultura di governo. Siate la guida del paese; siate competitivi con gli avversari, leali con gli alleati e gregari con gli italiani. Dimostrate la vostra credibilità e la vostra affidabilità usando la politica come arma di distruzione dell’antipolitica. In campagna elettorale l’unica arma che vi renderà convincenti sarà il senso delle Istituzioni; presentatevi agli elettori con il realismo e il senso di responsabilità che contraddistingue chi davvero vuole cambiare in meglio le nostre vite. E buona fortuna.