Se il 2011 è stato l’anno di Bersani, il 2012 l’anno di Monti, il 2013 l’anno di Letta con la prima grande coalizione della Seconda Repubblica; il 2014 è stato indiscutibilmente l’anno di Matteo Renzi. Ora, per capire se l’attuale PdC rappresenta davvero la svolta decisiva per il paese e non la meteora politica dei predecessori, è importante saggiare l’effetto che fa ai renziani e agli antirenziani con un semplice esercizio di scrittura ad lìtteram, dunque un piccolo contributo alle argomentazioni degli uni e degli altri.

A favore dei renziani è certamente la sicumera del “fò tutto io”, bandiera del renzismo da sempre. Va detto, per obiettività, che questa constatazione non è tutta farina del suo sacco, perché molte scelte dell’inquilino di Chigi partono – e spesso nascono – dai suoi predecessori: legge elettorale (Mattarellum), finanziamento pubblico ai partiti, legge contro la corruzione ecc. ecc. A Renzi vanno gli 80 euro, il bonus bebè e lo storico 40.8 per cento alle europee.

A sfavore del renzismo vanno citate il pasticcio dell’eliminazione delle province, la legge elettorale dei sindaci in cui “la sera stessa del voto si deve sapere chi ha vinto” – una specie di vittoria a tavolino, in pratica – e la psicosi dell’antipolitica contro la casta. Ma la madre di tutte le battaglie è sicuramente l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti: la più insensata pratica contro la corruzione politica mai attuata dai tempi di Mani pulite. Prove tecniche di antidemocraticità, prendono per buono un sistema che considera ogni finanziamento privato come corruzione fino a prova contraria, senza pensare che buona parte dei guasti di questi vent’anni prescinde dal finanziamento pubblico perché va a dislocarsi in una politica che non è milionaria nei termini ma nel metodo.

La solidità del renzismo la scopriremo in questo 2015. Capiremo, inoltre, se il peso dato a Renzi nel 2014 è destinato ad avere poche varianti rispetto all’anno scorso; oppure, come i suoi predecessori, è il solito copione nuovista che nella pratica non vuol dir nulla: giovani esponenti di partito al posto della solita aristocrazia della società civile, l’istituzione che costeggia il grillismo rivendicando l’autonomia politica, la rivendicazione della comunicazione come primato non subalterno ai mezzi di informazione. Insomma, il nuovo non è nuovo in quanto tale ma nemmeno il vecchio è, o sarebbe, da buttar via.

Ed è in questo substrato che la sinistra a Renzi vorrebbe collocarsi. Col rischio di di sprofondare, conservativamente, proprio alla sua destra: la scelta di sfidarlo in un confronto reale su scelte concrete – senza antieuropeismo da peso morto e, soprattutto, senza la parodia giovanile di slogan d’altri tempi – elimina l’illusione di costruire una sinistra europea nello stile dei compagni di Syriza e degli anarco-cazzari di Podemos. Lavorare in difesa dei lavoratori, senza prendere spunto dalla Costituzione o dall’Articolo 18 che fu, è ancora terreno fertile per spostare il Pd a sinistra. L’errore fatto fin oggi, a parer mio, è cercare di spostare Renzi a destra per riprendersi il Pd a sinistra. Errore che, mio malgrado, consiste sostanzialmente nel passeggiare in un filo sospeso nel vuoto che lascia nel dubbio l’elettorato più progressista: la retorica berlusconiana nel dividere la politica tra destra e sinistra, consente di portare il consenso ad uno dei due lati, alternativamente, ma in realtà lascia l’elettore medio in balia di un ibrido che non è né l’uno né l’altro. Il gioco diventa duro quando una delle due parti riesce a stare sul filo del fuorigioco senza mai cascarci. E Renzi, si sa, è un maestro in questo.