Un paese in cui si usano due pesi e due misure per uscire dal cerchiobottismo del “prima i marò” o “prima Greta e Vanessa”, è un paese che andrà a rotoli culturalmente e prima o poi anche mentalmente.

Ritorno sul discorso dei marò, perché da ieri circola online il video di Greta e Vanessa nel quale le due giovani cooperanti chiedono di essere liberate.

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Ciò che mi infastidisce e mi deprime, è l’assoluta insensatezza del voler fare una lista di priorità tra il rapimento di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli in Siria, e l’arresto dei due fucilieri Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in India. Mi infastidisce la lista in sé; mi deprime, anzi mi fa proprio rabbia, leggere i commenti alla notizia del video di Greta e Vanessa. La differenza c’è, ma non si tratta di dare priorità all’uno o all’altro: semplicemente vanno su canali diversi. Però, visto che sui social la discussione è stata parecchio animata, vorrei dare il mio piccolo contributo per capire le differenze tra le due tragedie.

Partiamo dall’assunto di un mio amico – “Le due ragazze hanno portato aiuti a dei poveracci in Siria e sono state rapite da un esercito di terroristi. I due marò hanno ucciso dei pescatori indiani con un errore evidente sulle regole di ingaggio e sono stati arrestati da un paese democratico secondo il diritto internazionale. Punto.” –  e dell’incipit che ha scatenato subito dopo una serie di falsità celate sotto l’egida dell’ignoranza e della disinformazione (o dall’informazione a senso unico): “Due ragazze hanno scelto di andare volontariamente in una zona pericolosa, sono state rapite e adesso vogliono essere salvate dai soldi degli italiani. Due militari hanno fatto il loro dovere e da anni sono trattenuti senza processo in uno stato che finge di essere democratico. E’ solo un altro punto di vista della stessa storia. Punto”.

Beh, no: sono due casi diversi ma così simili che sembrano plagiati. Le due ragazze facevano volontariato; i due marò erano contractors. Non ho nessuna intenzione di dare colpe, però la differenza, se esiste, sta nel come NOI visualizziamo i due fatti. Io tenevo un pelino in più per le due ragazze, nei commenti era invece il contrario: la differenza sostanziale sta nel capire che i due marò non rischiano nulla, le due ragazze invece rischiano la vita. Ma nemmeno questo è un problema, nella normale dialettica. Appunto: la normale dialettica, quella che poi è andata deteriorandosi.

Qualcuno ha detto a chi la pensa come me che non ci interessano le ricostruzioni dotate di prove perché i due marò, essendo militari, sono colpevoli per definizione. Non riusciamo, dicono nei commenti, nemmeno a valutare con mente scevra da pregiudizi i fatti così come emergono dalle normali cronache incrociate. Visto che le accuse sono ben definite, sarà meglio analizzare i fatti.

Le prove sono circostanziali: i marò hanno ucciso due pescatori in acque territoriali indiane (come emerso sin dall’anno scorso) quindi, in base al diritto internazionale, devono essere processati in loco. Erano dei contractors (vedremo dopo perché) e questo è un fatto, per cui lo status di militari decade. Che poi vogliamo riportarli a casa è un altro paio di maniche, e siamo tutti d’accordo, però non vedo il motivo di giustificare un omicidio anche se per errore.

Ma secondo lo stesso autore del commento precedente io darei informazioni false: “i marò non hanno ucciso nessuno. E l’India ha fatto fuori tutte le prove. Il peschereccio per primo, che è stato lasciato affondare misteriosamente, dopo che avevano fatto le indagini di polizia scientifica impedendo ai tecnici italiani di parteciparvi. Hanno bruciato i corpi dei pescatori uccisi impedendo così ogni successivo esame autoptico. Inoltre gli orari degli episodi non collimano. I marò hanno sparato DAVANTI – e non SU – un peschereccio diverso. Questi qui sono stati colpiti, con ogni probabilità, dai contractors presenti su una nave greva e in luogo e in orari ben differenti da quelli dell’episodio della Lexie. Se la nave fosse stata in acque territoriali indiane, l’India non avrebbe dovuto ricorrere allo stratagemma di invitare la nave a recarsi in porto con la scusa di “rilasciare testimonianze contro dei pirati che le autorità avevano catturato“. Bastavano elicotteri e motovedette per fermarla. Dunque era in acque internazionali. Cosa, peraltro facilmente comprovabile con le registrazioni radar. Inotlre se fosse come dici tu, la magistratura indiana avrebbe da subito formulato un capo di imputazione. Invece non è in grado di farlo proprio perché non ha elementi di prova. Li tengonmo semplicemente in ostaggio sperando che, alla fine l’Italia ammetta la colpevolezza e faccia scuse ufficiali, così da salvare loro la faccia. I militari italiani, infine, non sono dei contractors, ma sono militari mandati in missione ufficiale ai sensi di un decreto specifico del nostro governo e ai sensi di una operazione antipirateria dell’ONU. Inoltre l’India, in un processo, dovrebbe spiegare come mai sulle coste del Kerala operano indisturbate comunità di pirati. Perché l’operazione ONU è rivolta a contrastare proprio quelli!!!”.

Punto per punto: Gli spari dei due marò, dicono i test balistici condotti in India alla presenza di due tecnici italiani, hanno ucciso due pescatori indiani a bordo del peschereccio St. Antony. Il peschereccio indiano ha lanciato l’allarme e, dopo due ore e mezza dal fatto, sono stati contattati via radio le imbarcazioni sospettate di essere coinvolte nel presunto “attacco pirata”: l’Enrica Lexie, la Kamome Victoria, la Giovanni e la Ocean Breeze. Delle quattro l’unica a rispondere affermativamente è l’Enrica Lexie.

Abbiamo respinto dei pirati” dicono alle autorità indiane – ABBIAMO RESPINTO DEI PIRATI! Lo dicono dall’Enrica Lexie, non dalla nave greca. In quel momento era tutto sotto controllo, il peggio era ovviamente passato, e infatti l’Enrica Lexie stava continuando lungo la rotta prestabilita. In due ore e mezza, contravvenendo ai protocolli standard, la petroliera si era allontanata di ben 70 km dalla “scena del delitto” senza avvertire nessuno. La cosa ancor più grave è che dopo l’arresto, l’Italia ha cambiato tre versioni: “non siamo stati noi, ha sparato qualcun altro”; “siamo stati noi ma ci siamo confusi e comunque eravamo in acque internazionali”; “siamo stati noi, li abbiamo scambiati per pirati, ma siamo militari in servizio, abbiamo l’immunità e inoltre eravamo in acque internazionali”.

L’allora Ministro degli Esteri italiano, Giulio Terzi di Sant’Agata, davanti alla Camera dei Deputati, aveva sostenuto che anche l’India aveva ammesso che l’Enrica Lexie, quel pomeriggio, si trovasse “in acque internazionali”: affermazione che non trova alcun riscontro in nessuna dichiarazione ufficiale delle autorità indiane né, tantomeno, nella lunga sentenza pronunciata dalla Corte suprema indiana il 18 gennaio, pubblicata in versione integrale sul sito della massima corte indiana. Nelle oltre cento pagine non si dice mai “acque internazionali”, bensì “non in acque territoriali”, che sembra la stessa cosa ma non lo è. La petroliera italiana, dicono le rilevazioni satellitari, ammesse dalla stessa difesa dei due marò in India, si trovava a 20,5 miglia dalla costa del Kerala, nella cosiddetta zona contigua, tratto di mare dove, secondo la United Nations Convention on the Law of the Sea (Unclos), si estende fino a 24 miglia. In quell’area la giurisdizione dello stato è limitata a questioni di fisco, immigrazione, sanità e dogana: quindi, seppure non c’entri direttamente col nostro caso, la zona contigua non rientra nelle acque internazionali.

Per agevolare il lettore, va anche detto che l’India ha firmato e accettato la Unclos, ma l’ha fatto con due riserve, cioè dichiarando di non aderire a due punti della Convenzione. La prima riserva (articoli 287 e 298, lettera “A” della dichiarazione) ha proprio a che fare con le indicazioni circa la delimitazione della giurisdizione nazionale nelle acque fino a 200 miglia (zona economica esclusiva). In sostanza, l’India difende il diritto di decidere, caso per caso, come procedere qualora si verificassero reati commessi entro 200 miglia dalla costa. In virtù di questa riserva, infatti, il codice di procedura criminale indiano con la section 188a estende la completa giurisdizione dello stato fino alle 200 miglia nautiche. Tradotto dal legalese: l’India potrebbe avere solide basi per decidere di avocare a sé la giurisdizione del caso Enrica Lexie. La seconda riserva (lettera “B” della dichiarazione), ancora più pertinente, indica che “Il Governo della Repubblica dell’India interpreta che le disposizioni della convenzione non autorizzano altri Stati a procedere, entro la zona economica esclusiva a manovre o esercizi militari, in particolare quelle che coinvolgano uso di armi da fuoco o esplosivi, senza il consenso dello Stato costiero”. Ovvero, la presenza di due militari italiani che sparano entro 200 miglia dalla costa indiana, senza un permesso esplicito di Delhi, è da ritenersi illegale. E il permesso di Delhi, l’Italia, non lo ha avuto.

Per concludere il discorso, l’Italia, con la Marina Militare, partecipa attivamente da anni a due operazioni internazionali di contrasto alla pirateria: Atalanta, dell’Unione Europea, e Ocean Shield, della Nato. Entrambe le operazioni si concentrano in un’attività dissuasiva e di monitoraggio del Mar Rosso e del golfo di Aden, al largo della Somalia, dove il rischio pirateria è maggiore. I militari, a bordo di navi da guerra, scortano i cargo di passaggio e pattugliano le acque limitrofe. Quindi l’Italia, quando partecipa come nazione alle operazioni internazionali di contrasto alla pirateria, lo fa con e su navi da guerra. I marò a bordo dell’Enrica Lexie, invece, tecnicamente non partecipavano a nessuna missione internazionale. Questo perché nel 2011 il Ministero della Difesa e Confitarma, la Confederazione Italiana Armatori, hanno firmato un’intesa, seguita da una convenzione, che permetteva, agli armatori che ne facessero richiesta, di imbarcare dei Nuclei Militari di Protezione (Npm) formati da fucilieri di Marina, impiegati in servizio anti pirateria a difesa, quindi, di navi commerciali italiane, ma private (nel caso specifico della Lexie, di proprietà dell’armatore Fratelli D’Amico). La protezione delle attività commerciali su navi cargo italiane veniva quindi “appaltata” a personale militare pagato, secondo quanto sancito dall’addendum alla convenzione, 467 euro a testa per giorno di navigazione. In gergo tecnico tali figure si chiamano “contractors”.

Per quanto riguarda invece “sulle coste del Kerala operano indisturbate comunità di pirati”, l’affermazione è decisamente falsa: le coste del Kerala, stato dell’India meridionale, nell’immaginario collettivo italiano sono diventate una specie di Far West galleggiante dove, secondo varie versioni, spararsi addosso durante la navigazione è pratica comune. In pratica sarebbe un mare “infestato” di pirati affrontati con la forza da fucilieri italiani, vedette cingalesi, contractors greci e guardia costiera indiana. È necessario fissare una volta per tutte un punto centrale: al largo del Kerala i pirati non ci sono. Lo dicono da anni gli indiani, abbastanza risentiti del fatto che le proprie coste occidentali rientrino nella cosiddetta zona ad alto rischio pirateria individuata dagli assicuratori del trasporto cargo internazionale, aumentando esponenzialmente il premio assicurativo per chi naviga in quelle acque. Ma lo dicono soprattutto i dati dell’International Chamber of Commerce, sezione Crime services, che ogni anno raccoglie tutte le denunce di pirateria mondiali in un rapporto globale: un solo caso in tutto il 2013!

La prima risposta che mi hanno dato – “l’India non può riservarsi il diritto di decidere caso per caso a seconda di quello che le fa comodo, se le acque contigue sono internazionali oppure no“ -, ma soprattutto la seconda, mi ha fatto decidere di non partecipare più alla discussione

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Latorre e Girone, posti in stato di fermo dal 19 febbraio del 2012 per il duplice omicidio dei pescatori Ajesh Binki e Valentine Jelastine (dite la verità: li conoscevate i nomi dei due morti?), stanno godendo di misure cautelari assolutamente eccezionali considerando le accuse: non hanno passato un solo giorno in prigione (quando soggiornavano all’interno di un istituto carcerario, in Kerala, stavano nell’ala riservata al personale impiegato, non ai detenuti) risiedendo in hotel molto confortevoli e, dal gennaio del 2013, in appartamenti all’interno dell’ambasciata d’Italia a New Delhi. Ma per noi patrioti le cose stanno diversamente: i due fucilieri sono stati rapiti da uno stato canaglia e rischiano la pena di morte (che non è nemmeno contemplata per il caso in questione). L’Italia, purtroppo, è questa.