Di fronte a eventi quotidiani che spesso superano la più fervida immaginazione di un autore di romanzi, nascondere la testa sotto la sabbia per non vedere non giova alla civile evoluzione delle coscienze. È inutile essere in prima fila a gridare“Mai più!” nei pochi giorni della celebrazione dell’Olocausto, fingendo poi di non accorgerci dei continui abusi, delle sopraffazioni e dei crimini contro l’umanità perpetrati attorno a noi in nome della religione, del dio denaro, della brama di potere o per semplice gratuita malvagità. Ogni piccolo tassello, ogni minimo sforzo per evidenziare gli errori diventa allora importante perché contribuisce a moralizzare le coscienze e a non far apparire normale prassi ciò che in realtà è mostruoso. In questa ottica, ogni iniziativa tesa a instillare anche un solo dubbio sulla correttezza di ciò che accade attorno a noi è benvenuta. Anche quando la riflessione scaturisce da un semplice racconto di vita quotidiana a New York.

ISIS
La bandiera nera con la scritta bianca “NON ESISTE ALTRO DIO CHE IDDIO” dell’Is (o Isis e Isil come spesso si legge) sventola per la prima volta nei pressi della città siriana di Ma‘lula il 2 giugno 2014 dopo giornate di violenti combattimenti. L’invenzione del nome che oggi fa tremare l’Occidente è invece attribuita a un generale dell’esercito governativo siriano, tale Suhayl, che, osservando la bandiera sventolare, pare abbia esclamato: «Quelli sono del Da‘ish!», ovvero al-Dawla al-Islamiyya fi al-‘Iraq wash-Sham, Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. In realtà uno Stato Islamico iracheno, una frangia sunnita che raggruppava sei governatorati, era già attivo dal 2006. Dopo la proclamazione unilaterale del califfato per opera di Abu Bakr al-Baghdadi, il nome è stato semplificato in al-Dawla al-Islamiyya (Stato Islamico), anche se per tutti o quasi è rimasto Isis.

Di fronte alla crescita del mostro, l’Occidente ha preso tempo, dibattendo se il cattivo da combattere fosse il governo siriano del dittatore Assad o le mille frange ribelli che gli facevano guerra. Fatto sta che il cocktail esplosivo di malcontento, precarietà, disponibilità d’armi, confidenza con il clima di guerra, carenza di leggi e fanatismo religioso, ha creato un macchina bellica capace di travolgere interi fronti con azioni simili alla guerra lampo predicata dagli strateghi nazisti. Una guerra nella quale la disponibilità di uomini addestrati vale più della tecnologia e delle bombe intelligenti. Nelle incertezze dell’Occidente le milizie dello Stato Islamico (prevalentemente quello libico e quello iracheno-siriano) si sono attestate alle porte dell’Europa. Dietro l’apparente aggressività attribuita a un fanatismo religioso di stampo medievale si nasconde un’organizzazione ramificata, spietata, moderna, attenta alla comunicazione. Prova ne siano i filmati divulgativi che accompagnano ogni esecrabile omicidio di ostaggi innocenti.

CENNI STORICI
Il 17 aprile 2015, le forze lealiste di Baghdad hanno trionfalmente diffuso la notizia dell’uccisione del generale al-Douri nel corso di un’azione militare. Non è stato però possibile eseguire gli accertamenti dell’identità del “Re di Fiori” (nome e sistema ideato da Bush Jr nel 2003) con il metodo del DNA per mancanza di parenti prossimi. Sono in molti gli addetti ai lavori che hanno manifestato fondati dubbi sulla fine di al-Douri, convinti che il sinistro generale, dopo aver organizzato la messinscena della sua presunta morte, ancora regga le sorti della macchina bellica dell’Isis.

Abu Hagar, il depositario dei conti cifrati dell’Isis, crollò dopo due giorni di serrati interrogatori da parte di agenti dei servizi occidentali. Nella sua casa, vicino a Mosul, furono trovate centosessanta chiavette elettroniche contenenti alcuni dei segreti dello Stato Islamico, inclusa una disponibilità di ottocentosettantacinque milioni di dollari in contanti. Agli inquirenti, dopo il rinvenimento delle chiavette, Hagar disse: «Non sapete che cosa avete fatto. Adesso Mosul si trasformerà in un inferno». Due giorni più tardi Mosul, città che contava più di seicentomila abitanti, è caduta nelle mani dei miliziani dell’Isis. Si stima che, tra razzie nelle banche cittadine (la sola rapina alla banca di Mosul ha fruttato oltre quattrocento milioni di dollari), appropriazioni e confische, il patrimonio liquido dell’organizzazione abbia superato il miliardo e mezzo di dollari. Poi è arrivato il petrolio. L’Isis controlla direttamente una sessantina di pozzi petroliferi attivi che gli consentono introiti netti dai due ai tre milioni di dollari al giorno e, dai soli pozzi iracheni, i miliziani estraggono circa trentamila barili di greggio al giorno.

Matthew Levitte, direttore del programma d’intelligence e antiterrorismo al Washington Institute for Near East Policy ha dichiarato: «Lo Stato Islamico è probabilmente il gruppo terroristico più ricco mai conosciuto. Non sono integrati nel sistema finanziario internazionale e per questo non sono vulnerabili». Oggi si stima che il patrimonio liquido dell’Isis superi i due miliardi di dollari.

PARIGI
Dopo le stragi del 13 novembre, la Francia ha pensato che la migliore risposta al terrorismo sia bombardare Raqqa, la città siriana considerata il quartier generale dell’Is in Siria. Lo Stato Islamico rapina banche, ruba e vende petrolio, crea assassini e stragi in tutto il mondo, compreso il Medio Oriente. Qualche domanda, soprattutto a me, viene spontanea: chi gli vende le mine antiuomo e le tecnologie belliche? Non è l’Isis il produttore, siamo noi occidentali. Siamo noi a venderle al terrorismo. In tutto questo io vedo solo un occidente che si fa avanti quando c’è da usare le armi, ma che si tira indietro quando vince la sua guerra “democratica” personale e servono aiuti diversi: cibo, scuole, infrastrutture, etc. I terroristi, in pratica, li inventiamo noi occidentali.

La guerra, almeno come la intendo io, non è fatta di combattimenti, bombe intelligenti e missili ipertecnologici, ma da operazioni di intelligence sul campo e di aiuti alla popolazione per renderla più consapevole dei rischi che comporterebbe una massificazione religiosa integralista. Non sono le bombe la soluzione, sono le persone. Come sempre.