Il 13 agosto 2015 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la cosiddetta Legge Madia di Riforma della PA al cui interno troviamo 14 importanti deleghe legislative: dirigenza pubblica, riorganizzazione dell’amministrazione statale centrale e periferica, digitalizzazione della PA, semplificazione del procedimenti amministrativi, razionalizzazione e controllo delle società partecipate, anticorruzione e trasparenza. Il 25 novembre scorso, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della riforma perché è mancato l’accordo con tutte le regioni. Fin qui tutto normale: una delle tante riforme cassate dalla Consulta perché illegittima. La realtà, però, è ben diversa e vale la pena raccontarla senza scadere nella retorica.

L’iter per il riordino della Pubblica Amministrazione parte nel 2014, quando il governo Renzi decide di usare la legge delega per riformare un settore molto importante dello Stato e della nostra quotidianità. La legge delega, scrive Wikipedia, “è una legge formale approvata dal Parlamento, che delega il Governo a esercitare la funzione legislativa su di un determinato oggetto”. Quindi il governo ha chiesto la delega al Parlamento per riformare la PA seguendo una prassi consolidata, usata soprattutto quando gli attori in campo sono tanti. In questo caso, gli attori, cioè gli enti e e le commissioni competenti, sono il Senato e la Camera che deve approvare la legge e i successivi decreti attuativi; le Commissioni preposte di Camera e Senato che verificano ed emanano correzioni al testo (tramite gli emendamenti); il Consiglio di Stato che deve dare parere formale in caso sussistano lesioni nei diritti dei cittadini e delle regioni; la Conferenza Stato-Regioni che deve dare il proprio parere per far andare avanti la riforma.

Come vedete, la legge è passata sotto molte ispezioni con decine e decine di emendamenti e correzioni fatte al testo da tutti gli organi competenti, e nell’estate dello scorso anno, finalmente, ha visto la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale in attesa dei decreti attuativi per diventare legge dello Stato.

Il governo scrive diciotto decreti attuativi pronti per il nuovo passaggio alle commissioni competenti di Camera e Senato, quattro di questi, però, vengono impugnati dalla regione Veneto con un ricorso alla Corte Costituzionale per lesione della propria sfera di competenza. Voi mi direte: ma la Conferenza Stato-Regioni aveva già espresso parere favorevole alla riforma. Esatto, ed è proprio in questa fase che arriva il più classico dei colpi di scena.

La Consulta, con una sentenza che farà certamente discutere ma legalmente ineccepibile, dichiara che per far passare la riforma occorre un accordo con tutte le regioni. CON TUTTE LE REGIONI. In Italia, infatti, le regioni non possono decidere a maggioranza: serve l’unanimità. Per cui, basta che una sola regione su venti sia contraria che salta l’accordo. Ne basta UNA SU VENTI.

Secondo l’ordinamento giuridico italiano non conta la volontà del Governo, l’approvazione di Camera e Senato, del Consiglio di Stato e nemmeno il parere favorevole di chi rappresenta ottomila comuni e 19 regioni. Se una regione è contraria, se non c’è UNANIMITÀ, salta tutto l’accordo e la legge non si può fare.

L’unanimità è un sistema ormai obsoleto in un mondo a prevalenza democratico. L’unanimità è usata solamente per le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e anche qui le critiche sono asprissime perché spesso saltano accordi importantissimi per il singolo veto di un singolo paese. Questa non è più democrazia: quando i contrappesi giuridici non vengono aggiornati, diventano dei pesi per il paese e il risultato è l’immobilismo legislativo.

Il riparto di competenze tra Stato e regioni andrebbe aggiornato, e non per dare più potere al governo come dicono i critici della riforma costituzionale: per dare il giusto peso al nostro assetto istituzionale. Ed è anche per questo motivo che il 4 dicembre io voterò Sì al referendum sulla riforma costituzionale.