Sul referendum crimeano che ha visto prevalere l’annessione alla Federazione Russa con un plebiscito da pochi eguali, ascolto qua e là chi si sta strappando i capelli per un referendum ritenuto illegale, e chi, al contrario, crede invece lecito e giusto che il popolo di Crimea abbia potuto scegliere autonomamente la strada della loro appartenenza storica e politica.

Detto che la cosa non mi appassiona più di tanto perché vedo il qualunquismo comunitario urlare solo adesso a giochi praticamente fatti, mi fa specie invece sentire alcuni appassionati commenti sui media nazionali che tirano la volata per l’annessione alla Russia. Nel senso che capisco la preoccupazione occidentale per una possibile espansione russa; non capisco invece il paragone di alcuni – per lo più storici da due soldi buttati in tv e radio per far numero – con l’Alamo di John Wayne o con la Crimea de “I racconti di Sebastopoli” di Tolstoj di cui ho ascoltato questa strofa:

L’esercito di Sebastopoli, come il mare nella notte cupa e tenebrosa, mischiandosi, separandosi e ondeggiando affannosamente in tutta la sua massa, lentamente si allontanava nell’impenetrabile oscurità dal luogo sul quale aveva lasciato tanti fratelli coraggiosi, dal luogo tutto cosparso del loro sangue, dal luogo difeso ad oltranza per undici mesi contro un nemico due volte più forte, e che ora, secondo gli ordini, bisognava abbandonare senza combattere. Non è possibile capire quanto fosse penosa per ogni russo la prima impressione suscitata da quest’ordine.

Secondo questi autorevoli studiosi, gli ‘arroganti eurocrati non eletti da nessuno‘ parlano di referendum illegali senza sapere che ‘piegano storia e diritto alle loro idee fisse‘. L’idea fissa di questi ‘arroganti eurocrati‘ è che alla Russia si sta facendo pagare la lunga paura della rivoluzione e che quindi Mosca sia ancora ‘un nemico vinto cui strappare pezzi di corpo‘. Il tutto, logicamente, senza alcun referendum perché nessuno pensò di bandire la Crimea quando votò a maggioranza per l’indipendenza dell’Ucraina da Mosca. Tutto verte sul fatto che la Crimea è russa sin dagli inizi del XVIII secolo. E questo basta.

In un mondo con confini realmente labili e quasi trasparenti in cui le merci, il denaro, le idee passano da un punto all’altro del globo quasi immediatamente, che senso ha questo appassionarsi all’appartenere storico, linguistico etc, citando Tolstoj con un brano di struggente e drammatica bellezza. Quella era l’epoca in cui le persone normali spedivano una lettera a poche centinaia di chilometri di distanza che forse sarebbe arrivata dopo giorni, settimane. Che senso ha, oggi, parlare d’appartenenza linguistica o storica.

Vogliamo accettare il referendum come è stato fatto con il Kosovo? Ok, perfetto. Allora non parliamo di voler diminuire le differenze, ma di volerle aumentare. Se poco hanno a che vedere i russofoni di Crimea con gli ucraini, cosa hanno a che vedere con i mongoli o i siberiani o i ceceni? Di più? Forse la mia ignoranza mi rende cieco, ma non vedo criterio in queste scelte se non il porco denaro, lo sfruttamento del territorio e la supremazia militare. E a proposito: quando la Crimea era russa, il Kosovo era serbo. Però, in base al Teorema di Bush, hanno imposto la cosiddetta “autodeterminazione” ai kosovari tramutandoli in base NATO. Sono queste le cose che non condivido, né in un senso né nell’altro.

Ps: del referendum in Crimea, della Russia e dell’Ucraina, ne ho scritto più approfonditamente su Globus Magazine.