Ora, aldilà del fatto che solo i nostri giornali parlano di vittoria sulla Merkel mentre tutti gli altri media europei non se lo filano di striscio – a partire da quelli tedeschi: il Die Süddeutsche Zeitung, centrosinistra, apre con Putin e l’economia interna; Frankfurter Allgemeine, centrodestra, con l’aereo caduto in Malaysia; Die Welt, Verdi, col salario minimo -, ancora una volta si continua a cincischiare sul modello economico, politico e sociale che vorrebbe attuare il premier. Non sta a me dire se sia giusto o sbagliato ripercorrere le riforme sul mercato del lavoro approvate dieci anni fa in Germania dal cancelliere Schroeder. Del resto è indiscutibile che dieci anni fa la Germania mostrava sorprendenti analogie con l’Italia di oggi. Non si può nemmeno contestare che in una Europa sempre più sclerotica, imbrigliata da tassi di crescita cronicamente bassi, la Germania a guida socialdemocratica è stata uno dei primi paesi a fare i conti con la sostenibilità, in prospettiva, del proprio sistema sociale.

Gli effetti politici delle riforme varate da Schroeder – a cominciare dal taglio significativo del periodo del sussidio di disoccupazione – furono sostanzialmente tre: ammorbidire le regole sui licenziamenti; rendere pressoché obbligatorio l’accettazione di un lavoro per i disoccupati; diminuire il peso fiscale sul lavoro rendendo più fluido il passaggio dalla scuola all’occupazione sburocratizzando l’apprendistato e introducendo regole molto più stringenti per la copertura sanitaria. Queste riforme, dieci anni fa, furono politicamente ed elettoralmente devastanti. Schroeder perse tutte le elezioni regionali e dopo la sconfitta in Westfalia indisse le elezioni politiche anticipate. E le perse.

Il fatto è che la rivoluzione economica di quell’agenda (chiamata Agenda 2010), pur con molti difetti, è tra le principali ragioni della straordinaria rinascita della Germania che ha portato il paese ad essere la prima economia europea. Oggi la Germania vanta tassi di crescita e di produttività tra i più alti in Europa, i disoccupati sono crollati a più o meno tre milioni e la differenza tra disoccupazione giovanile e generale oscilla attorno ai 3-4 punti contro i 25 dell’Italia. Quando l’Europa parlava del “secondo miracolo economico tedesco” dopo quello del dopoguerra senza sostanzialmente spiegarsi come esso fosse avvenuto, la Bundesbank sentenziava che il boom era in buona parte attribuibile all’Agenda 2010 di Gerhard Schroeder. Il cancelliere diceva spesso che la Germania è riformabile; l’Italia, chiusa tra una spesa sociale non eccessiva e una pessima strutturazione, è evidente che non lo è. Almeno non lo potrebbe essere se vista con gli occhi degli ultimi 15 anni.

Nel 1997, quando la riforma Treu creò le premesse per una nuova flessibilità che spesso degenera in precariato, una commissione governativa decise di garantire urgentemente un’adeguata tutela ai lavoratori flessibili. È preoccupante notare invece che quella legge non è mai arrivata a conclusione, tant’è che ancora oggi il sussidio di disoccupazione protegge prevalentemente solo chi è già tutelato da contratti garantiti. Quella commissione giudicò inoltre eccessivi i costi della previdenza, oltre il 60%, sulla spesa sociale. Praticamente non abbiamo fatto un passo avanti in quindici anni. In più, gli investimenti a favore dei giovani e delle famiglie sono rimasti perennemente al di sotto della media europea. Un altro settore che oggi è irriformabile è la sanità. La sanità sembra ciò che era l’edilizia nella Prima Repubblica: un colossale buco nero di sprechi e corruttele. Altro che riforme.

Allora mi sembra abbastanza chiaro che il problema non sia cosa c’è nel bicchiere, se mezzo pieno o mezzo vuoto, ma che i provvedimenti economici del governo Renzi sia più logico analizzarli nella loro globalità piuttosto che considerare il singolo provvedimento, che da solo, ovviamente, non potrà far nulla. Date un’occhiata a questo articolo sulle politiche fiscali in Italia dal 1995 al 2010 e capirete perché il paese non cresce, al contrario dei colleghi del Nord Europa, a prescindere dal Job Act.

Qui di seguito riporto le conclusioni:

Il corretto bilanciamento del tax mix prevede una riduzione delle imposte sui redditi da lavoro (e di impresa, a patto che le imprese reinvestano gli utili) compensato dall’incremento della tassazione sui patrimoni mobiliari e immobiliari. Queste sono da anni le linee guida delle maggiori istituzioni internazionali. Si può non essere d’accordo, ma l’involuzione dell’economia italiana appare come la dimostrazione concreta che il modello fiscale adottato per lunghi anni e sino al 2010 non era ottimale ai fini di favorire efficienza e crescita del sistema produttivo. […] Insomma, la politica fiscale italiana nell’ultimo quindicennio è andata in una direzione originale, dati Eurostat alla mano: ha tassato il lavoro, detassato la ricchezza, favorito la concentrazione della ricchezza, disincentivato la crescita economica, svilito il potere d’acquisto dei salari medi e azzerato la crescita della produttività manifatturiera, contravvenendo peraltro ogni consiglio di best practice internazionale. […] Alla luce di quanto sopra, stupisce che in campagna elettorale vi sia ancora qualcuno che sostenga la bontà della (nefasta) politica fiscale adottata sino al 2010, proponendo ancora l’eliminazione di imposte patrimoniali e tacendo sull’indifferibile necessità di ridurre il cuneo fiscale sui redditi da lavoro.

Tornando ai provvedimenti del governo Renzi, questi sono i fatti:

  • Riduzione IRPEF e Riduzione IRAP = riduzione delle tasse sul lavoro;
  • Aumento tassazione su rendite finanziarie = imposta patrimoniale.

Finalmente si va nella direzione opposta al ventennio berlusconiano (e c’è ancora chi dice che Renzi è un emanazione di Silvio…) e questa direzione può essere la base per una crescita a medio termine. Smettiamola di parlare per slogan e guardiamo tutti gli aspetti di una politica economica.

Concludo dicendo che concordo col ministro Giannini nel dire che si può pure accettare una maggiore flessibilità nel modo di concepire i rapporti di lavoro. Del resto è evidente che questa maggiore flessibilità già esiste ed è tangibile, per chi la vuol vedere ovviamente, nel lavoro nero e nelle false Partite Iva. Quello che del modello tedesco manca ancora è la tutela sociale, cioè quei correttivi che permettono sia la riqualificazione che il sussidio. D’altra parte non mi sembra che la tutela dei posti di lavoro ante-Fornero abbia riscosso grandi risultati se non per i soliti noti.